di fra Enzo Galli, OFMConv


Lunedì santo: il giorno dell’amicizia
 
Gesù inizia la settimana santa in nome dell’amicizia. Prima di intraprendere la via dolorosa che lo porterà all’agonia e alla morte, si reca a Betania, dai suoi amici. È come se volesse prendere forza e coraggio; come se volesse fare il pieno di quella gioia che rallegra il cuore, per poter affrontare l’ultima prova. La sua visita a Betania è un po’ come la trasfigurazione per i discepoli: un’esperienza di luce, calore, amore prima di scendere nelle tenebre, per attraversarle senza soccombere e con la certezza che oltre quel tunnel si ritroverà una luce ancora più intensa di quella pregustata. Difatti, entrambi gli eventi sono prefigurazione della risurrezione. A Betania si festeggia la vittoria sulla morte (dopo la risurrezione di Lazzaro e come prefigurazione di quella di Cristo). Betania è anche l’immagine della Chiesa, che custodisce il profumo di Dio – l’amore reciproco – e in cui il servizio di Marta e l’amore di Maria rappresentano la vita nuova dei credenti, che sono passati dalla morte alla vita.
 
Inoltre, questo giorno santo in nome dell’amicizia – posto all’inizio della via verso il Calvario –, ci ricorda le stesse parole di Gesù: «Nessuno ha un amore più grande di questo: dare la sua vita per i propri amici» (Gv 15,13). Egli va dai suoi amici per dire che darà la vita per loro e, allo stesso tempo, per invitare tutti gli altri per i quali darà la vita ad entrare a Betania, nella casa dell’amicizia, perché saranno liberati dalla schiavitù e, dunque, non saranno più servi, ma amici. Entriamo quindi a Betania, vediamo perché è tanto speciale, osserviamo come saranno o dovrebbero essere le nostre relazioni dopo la Pasqua, pregustiamone il frutto dell’amicizia, dell’amore e della gioia.
 
A Betania c’è l’Amico, che è anche lo Sposo – a cui la sposa del Cantico cosparge di profumo i piedi –, e il Vivente, la Risurrezione e la Vita – come ha dimostrato loro poco prima risuscitando Lazzaro. Difatti, Maria unge, con olio profumato, non un corpo morto – come farà Nicodemo –, ma il Vivente; non come anticipazione del momento della sepoltura, ma della risurrezione. Il suo gesto è il principio della creazione nuova.
 
Nella casa (luogo delle relazioni quotidiane) di Betania si trovano gli amici che Gesù ama e da cui è amato. Maria è la prima che fa a Gesù ciò che Lui ha fatto per noi: corrisponde al suo amore folle, con altrettanta follia, senza calcoli e senza misure… a Betania “l’amore si spreca”. C’è reciprocità, gratuità, esagerazione. C’è il buon profumo di Cristo, ma anche il nostro profumo che prendiamo da Lui e restituiamo a Lui e ai fratelli e sorelle. «Noi siamo infatti dinanzi a Dio il profumo di Cristo» (2Cor 2,15). È il profumo dell’amore, che riempie la casa solo quando entra in questa circolarità – dato, ricevuto e restituito. Ma è anche il profumo del servizio, perché l’amore è servizio: Cristo è venuto come Colui che serve e ci ha insegnato che amare è servire. Non è forse quello che fa Marta? Lo fa qui, come nell’altro episodio. Lei è sempre colei che serve. Lei è l’altra faccia della medaglia: Maria è colei che ascolta, adora e contempla per amore; Marta è colei che serve per amore. Insieme formano l’unico volto del discepolo che crede e segue e ama Cristo, ora in un modo ora in un altro. I due atteggiamenti non sono contrapposti, ma complementari.
 
A Betania Gesù trova ciò che da sempre cerca, essere amato come ama. E oggi ci porta lì per indicarci che, dopo il suo ultimo sacrificio d’amore per noi – come contempleremo in questi giorni –, Lui vorrà vivere con noi lo stesso tipo di relazioni che si vivono a Betania, con la stessa intensità, con lo stesso amore, con lo stesso profumo. Non importa se servirai come Marta, o adorerai come Maria, o starai tra i commensali come Lazzaro. L’importante è stare con Lui, lasciarti amare ed amare (Lui e i fratelli), in modo libero, bello, rispettoso, gioioso, coltivando quell’amicizia con Lui e con i fratelli che ti fa essere davanti a Dio e al mondo il buon profumo di Cristo… come a Betania.
 
Certo non mancheranno insidie e prove, incontreremo sempre qualcuno che, come Giuda, vorrà rubarci questo tesoro prezioso. Ma se i nostri occhi e il nostro cuore saranno rivolti a Lui, nella totale fiducia in Colui che ha vinto e sempre vince il male per noi, riusciremo a non farci turbare e, quindi, a rimanere nell’amore – come Marta, Maria e Lazzaro che, qui, sono talmente presi da Cristo e penetrati dal suo amore che non si curano affatto di ciò che dice Giuda. Loro celebrano l’amicizia che dona la vita e, così, ci proiettano verso la Pasqua, perché da domani, quando inizieremo a salire con Cristo verso il Calvario, sapremo che qualunque cosa ci accada, alla fine, ci ritroveremo, insieme con Lui, a Betania.
 
 
Martedì santo: il giorno del turbamento
 
Dalla mensa di Betania a quella con i suoi discepoli. Nella prima abbiamo contemplato l’amicizia che dona la vita, l’amore corrisposto, reciproco, gratuito, generoso. Nella seconda – oggi –, invece, meditiamo l’amicizia infranta, l’amore tradito. Il tema ci accompagnerà anche domani, ma oggi lo osserviamo da una prospettiva diversa. La Liturgia, infatti, in questo martedì santo presenta alla nostra attenzione l’annuncio, da parte di Gesù, del tradimento di Giuda e del rinnegamento di Pietro. Fatti non ancora accaduti, ma che saranno imminenti e, soprattutto, di cui il Figlio di Dio ha ormai piena consapevolezza. È qui che inizia l’ora dell’agonia, il turbamento, la tristezza di Gesù. Già il solo pensiero certo che qualcuno dei tuoi amici, discepoli, fratelli ti sta o tradendo o rinnegando ti spezza il cuore. In alcuni casi, fa più male quando se ne prende consapevolezza che quando, di fatto, accade.
 
Questo è il momento che vive Gesù – e noi con Lui –, oggi, in questo martedì santo. Potremmo forse anche immaginarci seduti a mensa con loro e vedere Gesù «profondamente turbato» mentre dichiara: «In verità, in verità io vi dico: uno di voi mi tradirà» (Gv 13,21). Uno con il quale ha condiviso tutto, che mangia nel suo stesso piatto, che ha lasciato tutto per seguirlo, ma che ora, per qualche ragione, ha deciso non solo di lasciarlo, ma addirittura di tradirlo, di consegnarlo in pasto ai lupi. Certamente verrebbe anche a noi, spontanea, la domanda: «Sono forse io, Signore?» (Mt 26,22). Questo episodio, infatti, potrebbe interpellarci e provocarci, mettendoci in discussione e facendoci riflettere su quando e come anche noi avremmo potuto tradire Gesù e, più in generale, la nostra scelta di vita. Ma lo scopo di questo giorno e di questa meditazione non è questo. Oggi non siamo chiamati a riflettere su noi stessi, in realtà nemmeno su Giuda e Pietro. Oggi, per noi, è il momento di mettere il nostro capo sul petto di Gesù, il nostro amato amico, per “ascoltare” il suo cuore, per “sentire” il suo turbamento, la sua sofferenza, la sua amarezza a causa del pensiero di essere tradito e rinnegato. È il momento di con-patire con Cristo.
 
In una situazione simile, probabilmente anche noi, come Pietro, diremmo per consolarlo: “Conta su di me! Io sarò sempre con te! Darò la mia vita per te”. E Lui ci risponderebbe: “Darai la tua vita per me? In verità, anche tu mi tradirai”. Anche qui, come sopra, il punto non riguarda noi, non serve riflettere sui nostri fallimenti, le nostre cadute… non oggi. Tanto è un dato di fatto: chiunque, credo, ha rinnegato almeno una volta il Signore. Ed è proprio questo ciò su cui dobbiamo meditare: come si sente Gesù sapendo che Giuda lo tradisce e che Pietro e tutti gli altri, compresi noi, non possiamo fare nulla per aiutarlo? Gesù ieri è andato a Betania per stare con gli amici. Oggi rimane solo. Lui vivrà la sua passione da solo. Inizia qui il suo cammino verso la morte che sarà assoluta quando sulla croce, in un momento, si sentirà abbandonato anche dal Padre e, perciò, totalmente solo. Come afferma Gamberini, infatti, la vera morte – ancor più dolorosa di quella fisica – è quella in cui vengono meno tutte le relazioni: quella con gli altri, quella con se stessi e quella con Dio. Oggi contempliamo il venir meno della sua relazione con gli altri, la sua angoscia e il suo turbamento causato dalla consapevolezza che uno dei suoi lo tradirà, lo consegnerà alla morte e che chi promette di dare la sua vita per Lui lo rinnegherà o lo abbandonerà, perché nessuno può farci nulla. È iniziato il suo Calvario. È turbato ed è solo. Ora può solo confidare nel Padre.
 
Oggi contempliamo i sentimenti di Cristo, quelli che qualcuno definisce “i dolori mentali del Salvatore”, il suo profondo turbamento.
 
 
Mercoledì santo: il giorno del tradimento
 
Ieri abbiamo ascoltato l’annuncio del tradimento di Giuda (che si ripete quest’oggi) e del rinnegamento di Pietro. Oggi vediamo Giuda passare all’azione. I temi ritornano e, quindi, li riprendiamo, ora però dalla prospettiva opposta rispetto a quella di ieri. Non dalla parte di Gesù, ma dei discepoli, per la precisione di Giuda e Pietro. Ampliamo quindi lo sguardo, andiamo oltre il vangelo odierno, per meditare bene su di loro, adesso, con uno sguardo indietro (le palme) ed uno in avanti (il venerdì santo – quando, invece, ci concentreremo di nuovo su Gesù). Mi piace pensare che, in fondo, è proprio questo il modo in cui i discepoli gli «preparano la Pasqua». Sia Giuda che Pietro (con i quali si possono identificare anche gli altri, specialmente nel vangelo di Marco), infatti, consegnando Gesù, preparano l’agnello per il sacrificio, per la Pasqua.
È indicativo, al riguardo, un particolare sul rinnegamento di Pietro. Nel vangelo di Marco, quando Gesù lo annuncia, specifica: «prima che due volte il gallo canti, tre volte mi rinnegherai» (Mc 14.30). Al secondo canto del gallo il sacerdote scendeva nel cortile per fare l’offerta mattutina, mentre al primo si alzava. In tal modo Gesù sta dicendo a Pietro: “Quando sarà l’ora dell’offerta, tu mi consegnerai come vittima al sommo sacerdote” (difatti a quell’ora il sommo sacerdote era impegnato nel processo contro Gesù). Anche quello di Pietro, in un certo senso, è un tradimento (dal latino tradere = consegnare).
 
Andiamo, dunque, a vedere il contesto in cui Gesù, in Marco, annuncia il rinnegamento di Pietro, perché ce ne svelerà l’origine. Lo farà esattamente subito dopo aver terminato l’ultima cena – ascoltata anche quest’oggi nella versione matteana – e mentre uscivano verso il Monte degli Ulivi. Gesù dice che tutti loro rimarranno scandalizzati, ma Pietro, pieno di sé, gli giurerà che anche se tutti si scandalizzassero, lui no. E, poi, Gesù gli annuncia che lo avrebbe rinnegato (cf. Mc 14,26-31). Conosciamo bene la storia, le aspettative e le ambizioni dei discepoli: essi pensavano che stando con Gesù, il Messia potente che compie miracoli e prodigi, avrebbero raggiunto la gloria, l’onere, il successo (ben rappresentate, ad esempio, dalle richieste dei figli di Zebedeo – cf. Mc 10,35-36). Ma Gesù scombina i piani, perché percorre un’altra via, quella della debolezza, della croce, del fallimento; e questo loro non lo capiscono, tanto meno lo accettano. Ecco perché Gesù dice che rimarranno scandalizzati: lo “scandalo”, infatti, è una pietra di inciampo e Gesù, in questo modo, sta diventando uno “scandalo” per i suoi apostoli perché sta infrangendo/ostacolando i loro progetti, le loro attese, le loro illusioni.
Pietro, già precedentemente, al primo annuncio della passione (cf. Mt 16,21-23), si era opposto dicendo che una cosa simile non sarebbe mai successa (perché c’era lui a difenderlo?). Pietro – come tutti gli altri – rifiuta che la salvezza possa passare attraverso la sofferenza, la morte, il fallimento. In quella occasione, Gesù gli disse: «Va’ dietro a me, Satana! Tu mi sei di scandalo, perché non pensi secondo Dio, ma secondo gli uomini». Lo chiama “Satana” perché questi fu il primo, nel deserto, che tentò di fargli evitare la Pasqua (la sofferenza e la morte). Qui, di nuovo, giura di dare la vita per Lui perché vuole evitare che le cose vadano davvero come Gesù stava predicendo. Vuole fare di tutto per evitarlo, perché in fondo è ancora troppo centrato su stesso e non vuole rinunciare ai suoi sogni di gloria.
Quando poi sarà messo dinanzi all’evidenza di un fallimento preannunciato, smette di combattere la sua battaglia. Lui voleva combattere per la gloria, non per quello che sembra solo un fallimento. Non lo comprende e gli fa paura. Ha paura della morte, quella che voleva impedire a Gesù e che ora potrebbe colpire anche lui, trascinato dietro al Maestro, se non lo rinnega. In fondo Gesù ormai è destinato a morire, non può salvargli la vita, allora pensa a salvare almeno la sua. Non ha ancora compreso il valore di quella morte e, forse, neanche del rinnegamento che sta compiendo. Un sogno infranto e la paura della morte gli offuscano il cuore e la mente. In realtà è questa la sua morte. Nel triplice rinnegamento (cf. Mc 14,66-72), infatti, dice di “non conoscere” né Gesù, né i fratelli e tanto meno se stesso. In questo forse diceva il vero. Poco dopo, però, incrociando nel cortile lo sguardo di Gesù, che lo fissava con amore e infinita misericordia, si pente profondamente, versando lacrime amare (cf. Lc 22,61). È quello che alcuni definiscono come il “battesimo di Pietro”. Egli infatti, dopo aver toccato il fondo della disperazione e del fallimento personale, la morte del proprio io, si arrende all’amore di Cristo e si aggrappa alla Sua mano tesa che lo tira fuori dall’oblio. Pietro, finalmente, comprende che non lui salverà Cristo ma Cristo salva lui. Ora davvero è pronto a morire per Lui, come Lui e con Lui.
 
Anche nel caso di Giuda troviamo qualcosa di simile. In lui forse risulta ancora più plateale il motivo per cui seguiva Gesù. Era convinto che li avrebbe liberati dall’Impero romano, perciò lo segue per cercare la propria autorealizzazione. In realtà inseguiva un proprio progetto e Gesù gli era utile per realizzarlo. Quando, poi, vede che le cose iniziano ad andare diversamente e che, quindi, il suo progetto non si sarebbe realizzato, cerca comunque di ricavarne qualche “guadagno”. Così trova il modo per “venderlo” e dunque “consegnarlo” in cambio di un po’ di denaro. L’atteggiamento di Giuda ci fa fare un passo in avanti e ci interroga: “Usiamo” anche noi, a volte, la fede (compresa la nostra posizione, incarichi e ministeri, all’interno della Chiesa) per convenienza (per i nostri interessi o progetti personali, per l’autorealizzazione, per trarne qualche vantaggio, ecc.)?
A differenza di Pietro, però, Giuda alla fine non si pente e, quindi, non si apre al perdono. In Mt 27,3-5 si narra che egli, vedendo che Gesù era stato condannato, fu preso dal rimorso (senso di colpa), per cui riportò le monete ai capi dei sacerdoti e agli anziani i quali, però, non le accettarono. Fu lasciato da solo, con il suo peccato e il suo rimorso – perché è così che fa il tentatore: una volta che ti ha fatto cadere, ti lascia da solo. Allora decise di impiccarsi.
Fino alla fine rimane centrato su stesso. Il senso di colpa, infatti, è ben lontano dal pentimento: quest’ultimo fa uscire da se stessi perché è orientato alla persona offesa, si riconosce di averla ferita e dispiace di averlo fatto, per cui si chiede umilmente il suo perdono; il primo – il senso di colpa –, invece, fa rimanere centrati su se stessi, perché dispiace solo di aver fallito (Giuda si sente fallito perché non ha agito secondo la legge), di non essere stati bravi o perfetti, per cui ci si dispera, chiusi nel proprio io. Questo è confermato anche da ciò che segue, cioè il suicidio, che è l’estremo tentativo di autogiustificazione: “ho sbagliato, quindi pago, auto-condannandomi e auto-punendomi”. Il peccato più grande di Giuda non è stato quello di aver tradito, ma quello di aver voluto espiare il suo errore/male da solo, senza uscire da se stesso per aprirsi ad accogliere il perdono, come, invece, ha fatto Pietro.
 
Al di là di quanto e come abbiamo peccato, oggi è il momento di chiedere a Dio la grazia del pentimento, di quel pianto dolce che scioglie il cuore, come è successo a Pietro. E, quindi, chiedere ed aprirsi al perdono del Padre misericordioso.


 
Triduo Pasquale
 
Cena del Signore
 
«Sapendo che era venuta la sua ora di passare da questo mondo al Padre, avendo amato i suoi che erano nel mondo, lì amò fino alla fine» (Gv 13,1). Questo versetto di Giovanni fa da cornice al dittico che andremo a meditare questo giorno. È anche il tema di fondo dell’intero mistero pasquale (quindi del triduo), di cui oggi, Cristo stesso, svela il senso.
 

Istituzione dell’Eucaristia (1Cor 11,23-26)
In occasione dell’ultima cena, Gesù stesso, nelle parole pronunciate sul pane e sul vino, ci rivela il vero senso della sua morte.
Anzitutto, Egli, con le parole esplicative «questo è il mio corpo» e «questo è il mio sangue», pronunciate rispettivamente sul pane e sul vino, riferisce quei doni a Se stesso, alla totalità della Sua persona; in altri termini, Egli afferma che nel pane e nel vino sta offrendo Se stesso. Preannuncia così la Sua morte imminente, di cui è ormai consapevole, e ne spiega il senso: si tratta di una morte espiatrice[1]. Non solo per il perdono dei peccati, ma anche per sugellare con noi una «nuova alleanza». Quella di cui ha profetizzato Geremia (cf. Ger 31,31-34), che parla di un nuovo patto tra Dio e l’uomo, non più basato sulla volontà sempre fragile dell’uomo, ma iscritto direttamente nel suo cuore, attraverso il sangue del Figlio Suo. Lo scopo è la riconciliazione con Dio per una piena comunione di vita con Lui.
 
Andando ancora più in profondità, troviamo un ulteriore significato: Gesù offrendo Se stesso ai Suoi discepoli, nel pane e nel vino, li rende già ora partecipi del banchetto escatologico, della comunione con Dio. Perciò, il comando di ripetere il gesto ‒ «fate questo in memoria di me» ‒ non si riferisce alla cena pasquale in generale, ma soltanto a ciò che essa simboleggia e anticipa, e cioè l’evento salvifico. In altre parole, Gesù sta dicendo che dopo la Sua morte e risurrezione Egli sarà ancora presente nel pane e nel vino eucaristici, nei quali continuerà a donarsi come nostro cibo e nostra bevanda, come fonte di benedizione, di vita e di comunione con Dio.
 
In realtà, tutta la vita di Gesù è stata un dare la vita, in obbedienza al Padre e al Suo disegno di amore, per gli uomini e per la loro salvezza. È stata, cioè, una pro-esistenza: un vivere/esistere non per Se stesso ma per gli altri fino al dono totale di Sé sulla croce, dove con la Sua morte distrugge definitivamente la morte e dona la vita. La Sua morte, quindi, ha un valore soteriologico, come spiega nell’ultima cena, in quanto è offerta totale di Se stesso per il perdono dei peccati e, quindi, per la riconciliazione dell’uomo con Dio.
 
La lavanda dei piedi (Gv 13,1-15)
Con la lavanda dei piedi, Gesù manifesta, anzitutto, l’umiltà come l’aspetto più profondo del Dio amore. L’amore di Dio, rivelato dal Verbo incarnato, si concretizza nel servizio e nel dono di Sé (cf. Mc 10,45).
 
Gesù, sapendo che è giunta la Sua ora di tornare al Padre, lava i piedi dei suoi fratelli, perché camminino come Lui ha camminato, perché lo seguano nel “passaggio” dalla schiavitù delle tenebre alla pienezza di vita. I piedi, infatti, rappresentano il cammino dell’uomo che si è allontanato da Dio. Ora sono nelle mani del Figlio che li abilita al suo stesso cammino, attraverso il suo amore umile e folle.
 
Pietro inizialmente non accetta che Gesù lo serva, come non accetta che Egli dia la vita per lui, perché ha una falsa immagine del Signore, pensa che Egli stia sopra tutti per dominare, non sotto tutti per servire. Ma non accettare il Suo servizio è rifiutare Lui stesso e il suo amore, perché Egli è servo per amore. Accettarlo, invece, significa accogliere il suo amore come principio di vita nuova: un nuovo modo di camminare (piedi), di agire (mani) e di pensare (capo). Gesù, lavando i piedi ai fratelli, fonda una comunità nuova, dove regna non più il dominio di uno sull’altro, bensì il servizio reciproco.
 
La lavanda dei piedi, quindi, ha anzitutto lo scopo di rivelare qual è il vero volto di Dio, di spiegare il suo amore umile fino al sacrificio di Sé (ciò che contempleremo domani sulla croce). In secondo luogo, viene offerta come un esempio da imitare, per seguire le orme di Cristo e amare come Lui ci ha amati. Ma ad una lettura più profonda del testo, il gesto compiuto da Gesù non consiste solo in un esempio di umiltà. Come osservano diversi esegeti tra cui il Brown, infatti, la lavanda dei piedi ha un valore simbolico molto forte: quando Gesù ne spiega il significato, la presenta come un’azione salvifica, che avrebbe permesso ai discepoli di aver parte con Lui (cf. 13,8) e che li avrebbe purificati dal peccato (cf. 13,10). Si riferisce quindi alla sua morte redentrice, da cui scaturisce la vita nuova che riceviamo nel Battesimo. Non è l’azione fisica della lavanda che ci abilita ad amare come Lui ci ha amati, ma ciò che essa rappresenta e simboleggia. Ossia, il suo sacrificio d’amore che si consuma sulla croce e che ci giunge attraverso il suo Spirito, che ci libera dalla schiavitù del peccato e ci dona una vita nuova. [Ciò che abbiamo meditato nel brano sull’istituzione dell’Eucaristia].
 
Anche se la si considerasse semplicemente come un esempio di umiltà, la lavanda dei piedi non perderebbe la sua associazione con la morte di Gesù. Perciò, il miglior commento a ciò che Egli intende quando ci chiede di amarci e servirci come Lui ha fatto con noi (cf. 13,15) potrebbe essere Gv 15,12-13, laddove Egli ce lo “comanda” spingendoci fino al punto di offrire la nostra vita per gli altri.
 
 
Passione del Signore
 
Non potendo, ovviamente, considerare tutto l’episodio della passione, oggi propongo di meditare sui due momenti culminanti della stessa, ossia le due preghiere che il Figlio di Dio rivolge al Padre: all’inizio nel Getsèmani e alla fine al Golgota sulla croce. In esse infatti, specialmente in Marco e Matteo, è racchiuso, come in una cornice, l’intero dramma della passione di Gesù Cristo. Prenderemo come riferimento, in particolare, il vangelo di Marco che, sotto questo punto di vista, è più esplicito.
 
La preghiera del Figlio di Dio nel Getsèmani
Nel Getsèmani (cf. Mc 14,32-42 par.) ‒ dove il Figlio di Dio inizia il doloroso cammino incontro alla morte ‒, troviamo un Gesù spaventato e vulnerabile: sente «paura ed angoscia» (Mc 14,33) e dice apertamente ai suoi discepoli ‒ Pietro, Giacomo e Giovanni ‒ che la sua anima «è triste fino alla morte» (Mc 14,34). In tali versetti, con chiare allusioni ai salmi di sofferenza (cf. Sal 55,4-6; ma anche i salmi 31, 42, 43, 61), viene descritta la reazione di Gesù dinanzi al pericolo della morte imminente, come del Giusto sofferente che, nell’inquietudine, nell’angoscia e nel timore, supplica l’aiuto di Dio, nel quale ha piena fiducia. A questo punto del cammino, Gesù è certamente consapevole del suo destino di morte ‒ come emerge nei precedenti annunci della passione e morte e, ancora più esplicitamente, nell’ultima cena. Egli perciò, giunta «l’ora», esprime tutta la tristezza e il timore che un qualsiasi uomo possa sperimentare di fronte ad un simile destino e, quindi, supplica Dio di liberarlo da quell’ora, allontanando da Lui il calice amaro della morte (cf. Mc 14,36 par.). Gesù non va incontro alla morte in modo freddo e senza emozioni, ma ci va come un vero uomo. Se poi teniamo conto che Egli non solo è consapevole di morire, ma è altresì cosciente della natura e del motivo della sua morte, in quanto sa di essere il Figlio inviato dal Padre per «dare la propria vita in riscatto per molti» (Mc 10,45), allora possiamo immaginare come la sua angoscia sia molto più radicale di quella che prova un qualsiasi uomo dinanzi alla morte. Egli, infatti, proprio perché è il Figlio, sente su di Sé tutto il peso del peccato, del male, dell’orrore, di ciò che si oppone a Dio e che conduce alla morte. Qui, nel Getsèmani, è tentato di rifiutare il calice della morte che contiene tutto il peccato del mondo (i peccati di ciascuno di noi), che ora gli crolla addosso e che Egli deve prendere su di Sé, anzi che «deve accogliere dentro di sé, affinché in Lui sia privato di potere e superato» (Benedetto XVI).
 
Pur vivendo tutto ciò da uomo e come uomo, perciò in un’incredibile sofferenza – che, per Luca, si rende anche fisicamente visibile attraverso il sudore di sangue (cf. Lc 22,44) –, Gesù non si abbandona alle emozioni, ma pone la volontà di Dio al di sopra dei propri bisogni e desideri umani: «Però non ciò che voglio io, ma ciò che vuoi tu» (Mc 14,36 par.). La preghiera di Gesù, quindi, termina con la totale sottomissione della propria volontà a quella del Padre o, per dirlo in altri termini, si rimette definitivamente e totalmente nelle Sue mani.
 
Riguardo a questo aspetto, vi è una questione teologica di particolare rilevanza che verte sul “conflitto” interiore, vissuto da Gesù, tra la volontà naturale dell’uomo ‒ che vorrebbe che il calice passi oltre ‒, e la volontà del Figlio ‒ che si abbandona totalmente alla volontà del Padre. Si tratta della questione cristologica delle “due volontà” (divina e umana) di Gesù, sorta già nei primi secoli della Chiesa antica, e che ha trovato la prima e risolutiva risposta, nel VII sec., dal teologo bizantino Massimo il Confessore: a partire dalla creazione, la volontà umana è orientata verso quella divina e tende alla sinergia (ossia alla cooperazione) con essa, e in essa – nell’aderirvi – trova il suo compimento; a causa del peccato, tale sinergia si è trasformata in opposizione, per cui l’uomo, da quel momento, inizia a sentire la sua libertà compromessa proprio dalla volontà di Dio. Sulla base di tale tesi, Benedetto XVI conclude che: «Il dramma del Monte degli ulivi consiste nel fatto che Gesù riporta la volontà naturale dell’uomo dall’opposizione alla sinergia e ristabilisce così l’uomo nella sua grandezza. Nell’umana volontà naturale di Gesù è, per così dire, presente in Gesù stesso tutta la resistenza della natura umana contro Dio. L’ostinazione di tutti noi, l’intera opposizione contro Dio è presente e Gesù, lottando, trascina la natura ricalcitrante in alto verso la sua vera essenza».
La nostra naturale volontà ferita dal peccato è stata accolta e trasformata dentro l’Io del Figlio, la cui essenza si esprime nell’obbedienza filiale («non la mia, ma la tua volontà»); in Lui, dunque, tutti noi siamo trascinati dentro la sua obbedienza filiale e, perciò, «tirati dentro la condizione di figli».
 
Il grido di Gesù sulla croce
Dopo la preghiera, Gesù si avvicina ai discepoli e dice loro: «È venuta l’ora: ecco il Figlio dell’uomo viene consegnato nelle mani dei peccatori» (Mc 14,41). In realtà è Lui stesso che, dopo essersi rimesso nelle mani del Padre al Getsèmani, ora si consegna – consapevolmente e liberamente – nelle mani degli uomini per compiere la Sua (del Padre) volontà. Egli è il Giusto sofferente che entra nella via dolorosa della passione per aver liberamente accettato la volontà di Dio. Perciò, si consegna nelle mani degli uomini, lasciandosi prendere come un oggetto e si lascia maltrattare, insultare, schernire, uccidere; accetta di restare solo, abbandonato dagli uomini e, per qualche istante, anche da Dio, quando sulla croce grida: «Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato?» (Mt 27,46; Mc 15,34). Al grido sulla croce Dio non risponde. Dopo l’abbandono dei discepoli, ora Gesù fa esperienza del silenzio di Dio, dell’assenza del Padre. Questa è la vera morte ‒ come anticipato martedì ‒, dove vengono meno tutte le relazioni: quelle con gli altri (solitudine), con se stesso (angoscia) e con Dio (silenzio).
 
La passione, nei racconti evangelici, è piena di allusioni e richiami a testi veterotestamentari che ne illuminano il senso (specialmente Sal 22 e Is 53). Gesù Cristo è il Servo di YHWH (cf. Is 53) che appare come sacerdote e vittima, caricandosi di tutta l’iniquità e del peccato del mondo e offrendo Se stesso in espiazione vicaria, per la riconciliazione dell’uomo con Dio.
Ed è anche l’Israele sofferente (cf. Sal 22) che solleva a Dio – apparentemente assente perché tace – il grido angosciato della sofferenza e dell’abbandono, ma che, poi, celebra in anticipo l’esaudimento, la salvezza, non solo in proprio favore ma a vantaggio di tutti i popoli. È così che appare il Figlio di Dio sulla croce, dove viene ancora schernito e deriso come uno che è stato abbandonato e respinto da tutti; dove, toltegli le vesti, è spogliato di tutto, pende nudo dalla croce.
 
Alla luce di ciò, si può comprendere meglio il vero senso della preghiera di Gesù sul Golgota, che sale a Dio come un forte grido: «“Eloì, Eloì, lemà sabactàni?”, che significa: “Dio mio, Dio, perché mi hai abbandonato?”» (Mc 15,34; cf. Mt 27,46). Richiama l’inizio del Sal 22; è il grido d’aiuto, rivolto a Dio, da chi si trova nell’affanno e sperimenta con forte dolore la Sua assenza. In esso (Sal 22), vi è la testimonianza che quanto più si sperimenta l’assenza di Dio, tanto più si sente il bisogno di unirsi a Lui. Così è per Gesù che, proprio nel momento più buio, in cui si sente abbandonato da Dio nelle mani dei nemici, grida a Lui, impiegando tutte le forze, per tenersi saldo e unito al Padre Suo, al Dio che, nel Getsèmani, ha chiamato «papà», «padre amato (Abbà)». Il grido di Gesù, dunque, non è un grido di disperazione ‒ come non lo è il Sal 22 ‒, bensì espressione della sua piena e totale fiducia nel Padre e, al contempo, certezza dell’esaudimento, della risposta divina di salvezza per Sé e per i fratelli.
 
In conclusione, la preghiera di Gesù crocifisso esprime: da una parte, la sua profonda ed umana sofferenza; dall’altra, la sua obbedienza fiduciosa al Padre che lo porta, come già nel Getsèmani (e in tutta la sua vita), a sottomettere a Lui la propria volontà e, quindi, adempiere il piano di amore e di salvezza.
 
Oggi contempliamo Cristo che accetta:
- di entrare nella morte per donarci la vita, come il chicco di grano che deve morire per produrre frutto, per essere principio di vita nuova per noi;
- di sperimentare l’assenza di Dio, affinché noi, che ci eravamo separati da Lui, potessimo ri-vivere alla Sua presenza;
- di aver “sete”, per divenire, per noi, la sorgente dell’acqua viva che sgorga dal suo costato aperto. È lo Spirito Santo – che, per Giovanni, Gesù dona già dalla croce gloriosa; è l’Amore tra il Padre e il Figlio; è la vita divina e filiale che ci rende figli di Dio.
 
Oggi contempliamo il culmine dell’Amore di Dio per noi.
 
 
Sabato santo: il giorno del silenzio
 
Dopo la sua morte, il suo corpo viene deposto e poi sepolto. Ora non contempliamo più il Crocifisso, che non c’è, ma la croce che resterà per sempre il simbolo della resurrezione[2]. Prima di vederlo risorto, però, dobbiamo fare ancora un passo con Lui, verso il punto culminante della sua kénosis: la discesa agli inferi.
 
Egli, fattosi in tutto simile a noi, pur non avendo peccato, fa esperienza degli effetti del peccato. Perciò, in totale solidarietà con noi peccatori, entra nella morte fino all’estreme conseguenze, si reca nel «regno dei morti». È lo shèol (in ebraico) o l’ade (in greco), ovvero il “luogo” dove, secondo la tradizione giudaica del tempo, “scendevano” le anime defunte. Ma in senso più generale, per “inferi” – dove Lui discende secondo la tradizione – non si intende tanto uno spazio, quanto piuttosto uno stato, o una modalità di esistenza, ecc. In ogni caso, esprime la separazione da Dio e, perciò, la negazione della vita; fa riferimento alle profondità della morte (tenebre, solitudine, desolazione, ecc.), in cui è gettato l’uomo a causa del peccato. È lì che scende il Figlio di Dio. È il punto più basso della kenosis di Cristo. Ed è anche il punto più basso dell’esistenza umana[3], perché, come afferma von Balthassar, Egli scende fino all’ultimo gradino, al di sotto di tutti, in modo tale che da sotto, con un «subabbraccio», può includere tutti, fino all’ultimo più lontano.
 
Questa immagine esprime bene il duplice significato della discesa agli inferi: da una parte, è un segno di totale solidarietà con gli uomini peccatori; dall’altra, è l’ultimo atto della sua missione, che consiste nel liberare dalla morte eterna quelli che giacciono negli “inferi”. Il miglior commento a questo secondo aspetto, a mio avviso, ci viene offerto dalla Liturgia delle Ore, nella seconda lettura dell’Ufficio (del sabato santo) che, per comodità, riporto qui di seguito.
 
Che cosa è avvenuto? Oggi sulla terra c’è grande silenzio e solitudine. Grande silenzio perché il Re dorme: la terra è rimasta sbigottita e tace perché il Dio fatto carne si è addormentato e ha svegliato coloro che da secoli dormivano. Dio è morto nella carne ed è sceso a scuotere il regno degli inferi. Certo egli va a cercare il primo padre, come la pecorella smarrita. Egli vuole scendere a visitare quelli che siedono nelle tenebre e nell’ombra di morte. Dio e il Figlio suo vanno a liberare dalle sofferenze Adamo ed Eva che si trovano in prigione. Il Signore entrò da loro portando le armi vittoriose della croce. Appena Adamo, il progenitore, lo vide, percuotendosi il petto per la meraviglia, gridò a tutti e disse: «Sia con tutti il mio Signore». E Cristo rispondendo disse ad Adamo: «E con il tuo spirito».
E, presolo per mano, lo scosse, dicendo: «Svegliati, tu che dormi, e risorgi dai morti, e Cristo ti illuminerà. Io sono il tuo Dio, che per te sono diventato tuo figlio; che per te e per questi, che da te hanno avuto origine, ora parlo e nella mia potenza ordino a coloro che erano in carcere: Uscite! A coloro che erano nelle tenebre: Siate illuminati! A coloro che erano morti: Risorgete! A te comando: Svegliati, tu che dormi! Infatti non ti ho creato perché rimanessi prigioniero nell’inferno. Risorgi, opera delle mie mani! Risorgi mia effige, fatta a mia immagine! Risorgi, usciamo di qui! Tu in me ed io in te siamo infatti un’unica e indivisa natura. Per te io, tuo Dio, mi sono fatto tuo figlio. Per te io, il Signore, ho rivestito la tua natura di servo. Per te, io che sto al di sopra dei cieli, sono venuto sulla terra e al di sotto della terra. Per te uomo ho condiviso la debolezza umana, ma poi sono diventato libero tra i morti. Per te, che sei uscito dal giardino del paradiso terrestre, sono stato tradito in un giardino e dato in mano ai Giudei, e in un giardino sono stato messo in croce. Guarda sulla mia faccia gli sputi che io ricevetti per te, per poterli restituire a quel primo soffio vitale. Guarda sulle mie guance gli schiaffi, sopportati per rifare a mia immagine la bellezza perduta. Guarda sul mio dorso la flagellazione subìta per liberare le tue spalle dal peso dei tuoi peccati. Guarda le mie mani inchiodate al legno per te, che un tempo avevi malamente allungato la tua mano all’albero. Morii sulla croce e la lancia penetrò nel mio costato, per te che ti addormentasti nel paradiso e facesti uscire Eva dal tuo fianco. Il mio costato sanò il dolore del tuo fianco. Il mio sonno ti libererà dal sonno dell’inferno. La mia lancia trattenne la lancia che si era rivolta contro di te. Sorgi, allontaniamoci da qui. Il nemico ti fece uscire dalla terra del paradiso. Io invece non ti rimetto più in quel giardino, ma ti colloco sul trono celeste. Ti fu proibito di toccare la pianta simbolica della vita, ma io, che sono la vita, ti comunico quello che sono. Ho posto dei cherubini che come servi ti custodissero. Ora faccio sì che i cherubini ti adorino quasi come Dio, anche se non sei Dio. Il trono celeste è pronto, pronti agli ordini sono i portatori, la sala è allestita, la mensa apparecchiata, l’eterna dimora è addobbata, i forzieri aperti. In altre parole, è preparato per te dai secoli eterni il regno dei cieli»[4].
 
Ovviamente, poiché tutti gli eventi della vita di Gesù Cristo, accaduti nel tempo, sono anche metastorici, ovvero valgono per tutti i tempi e in perpetuo, possiamo certamente estendere l’efficacia salvifica della morte di Cristo anche in avanti, ossia anche a quelli che sono vissuti e morti (e che moriranno) dopo di Lui, senza averlo conosciuto durante la loro vita terrena, ma che l’hanno incontrato (o lo incontreranno) nell’oltretomba – chiunque scende lì vi incontra il Cristo disceso agli inferi, che gli offre l’ultima possibilità di salvezza. In tal modo, il Figlio di Dio riconduce al Padre tutti i figli dispersi (che lo vorranno).
Oggi tutta la terra tace perché, mediante il silenzio, possiamo contemplare con il nostro spirito Cristo disceso nel cuore della terra.



[1] Difatti, come afferma Gnilka, «il sōma, posto in parallelismo col sangue che è versato, è il corpo del sacrificio»; e aggiunge: «Chi ne mangia non soltanto si uni­sce al Christus passus, ma ha anche parte a questa morte e alla benedizione che essa sprigiona» (Gnilka, Marco, 778).
[2] Come la tomba vuota, anche la croce (senza Gesù crocifisso) sta ad indicare che Gesù non c’è perché è risorto.
[3] Gesù Cristo può andare così lontano, più distante di ogni altro perché, come osserva Ladaria (che cita la CTI): «Soltanto il Figlio, che come nessuno sperimenta l’amore del Padre ed è uno con lui, può provare fino a questo estremo l’oscurità che gli provoca la difficoltà di accettare i disegni del Padre su di lui». Ciò avviene per mezzo dello Spirito, l’Amore tra il Padre e il Figlio, il quale, anche nel momento in cui essi sono separati nel modo più profondo, continua a tenerli uniti nel modo più intimo.
[4] Da un’antica «Omelia sul Sabato santo», in Liturgia delle Ore. Secondo il rito romano e il calendario Serafico. Vol. II: Tempo di Quaresima-Triduo Pasquale-Tempo di Pasqua, rist., Città del Vaticano: LEV, 1998, 446-448.


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